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In un articolo tratto dal volume Nuove Alleanze e intitolato “L’Italia che verrà, quando? Per una visione coerente con la natura del nostro territorio” (qui il link), il Prof. Luigi Sacco e il Prof. Guido Ferilli, rispettivamente Ordinario e Ricercatore di Economia della Cultura presso l’Università IULM di Milano, si occupano della contradditoria relazione esistente tra l’identità storica e simbolica dell’Italia e i suoi processi di sviluppo economico e sociale.

Nelle politiche di sviluppo locale di questi ultimi anni, e ancora di più a livello nazionale, il potenziale del patrimonio culturale italiano è stato considerato in modo piuttosto inappropriato. Per creare sviluppo attraverso la cultura, scrivono i docenti, bisogna cioè “entrare in una logica di investimento, rischio, sperimentazione, sapendo che la cultura ha un senso, anche economico, soltanto quando è viva, capace di esplorare nuovi territori, indurre il cambiamento, liberare nuove energie”.

In Italia però, soprattutto nel recente passato, il potenziale culturale è stato declinato più sul versante turistico, concentrandosi in particolar modo su quei luoghi e quelle città d’arte maggiormente spinte da “luoghi comuni mediatici” in grado di soddisfare un’utenza dai gusti non particolarmente sofisticati ma, comunque, con buone capacità di spesa. L’offerta culturale si è basata dunque sul customer orientation, svilendone l’autenticità, la vitalità, l’innovazione.

Il Prof. Sacco e il Prof. Ferilli spiegano che si potrebbe dipingere un quadro dell’evoluzione del ruolo e del potenziale della cultura sulla base a tre momenti che scandiscono, loro volta, tre modelli: la “Cultura 1.0”, la “Cultura 2.0”, e la “Cultura 3.0”.

Nel modello della Cultura 1.0 la concezione dominante è quella che vede la cultura come un mezzo di “promozione spirituale e di identificazione sociale dell’individuo”. L’aspetto formativo ed educativo dell’esperienza culturale diventa di grande importanza. Tuttavia, l’economia è ancora caratterizzata da un sistema tradizionale, in cui si intravedono solo alcuni accenni ai processi economici della produzione culturale. Prevale l’approccio che distingue tra lavori produttivi e lavori improduttivi, in cui la riflessione sui beni culturali è completamente emarginata dal campo economico. La spesa pubblica si concentra sulla conservazione di infrastrutture quali teatri, biblioteche e musei.

Protagonista indiscusso di questo modello è il mecenate, che ha risorse economiche che provengono da fonti diverse dalla cultura, che decide di sovvenzionare la forma artistica e culturale che lo attrae per passione personale o per ragioni di consenso politico. Il sostegno pubblico alla cultura, invece, affermatosi progressivamente in Europa con l’emergere degli stati-nazione è semplicemente la trasposizione nella sfera pubblica della logica di committenza del mecenate.  La differenza fondamentale sta nel fatto che mentre il mecenate agisce in base a gusti personali, “lo Stato dovrebbe agire in base a linee condivise di politica culturale che rappresentano l’interesse collettivo, in modo da garantire che tutte le espressioni culturali ritenute interessanti dalla collettività siano messe in grado di operare e di essere fruibili dalla stessa”.

A cavallo tra il XIX e il XX secolo, il superamento di questo modello interamente incentrato sulla dimensione non economica della cultura, è facilitato da una serie di innovazioni tecnologiche che permettono a molte forme di espressione culturale di diventare accessibili a un numero maggiore di persone. Questo momento viene chiamato “rivoluzione industriale culturale”.

Inizia così a delinearsi quello che sarà il cosiddetto modello Cultura 2.0, in cui la produzione e il consumo di beni culturali si integra pienamente all’interno di un modello di sviluppo industriale. L’aumento del benessere e del tempo libero a disposizione, unitamente all’aumento del reddito e dei livelli di educazione, fanno registrare un aumento della domanda di beni culturali. Gli individui iniziano quindi a pagare per la cultura, facendo sì che il settore culturale diventi a tutti gli effetti una componente del sistema economico.

Il modello Cultura 3.0 comporta invece un passaggio fondato sul carattere economico-produttivo, all’attribuzione di un peso crescente ai “processi di apprendimento socializzati e interattivi al di fuori di un ambito settoriale specifico”. E’ quello che è stato chiamato “modello distrettuale evoluto”, in cui patrimonio culturale e spillovers creativi si manifestano specialmente nell’integrazione di filiere differenti; la cultura non produce più valore esclusivamente in quanto capace di generare profitto, ma in quanto fattore decisivo di produzione di capacità competitiva tangibile. Aumenta, inoltre, la ricerca di innovazione anche in campo culturale.

Le industrie culturali e creative rappresentano, nel quadro di mutamento indotto dal modello della Cultura 3.0, la frontiera più avanzata dello sviluppo economico contemporaneo, un’unione tra innovazione e cultura in continua trasformazione, dovuta soprattutto alla giusta combinazione di fattori quali il capitale umano, le opportunità di sviluppo determinate dal mercato e dagli attori pubblici, la percezione di questo settore economico quale strategico per lo sviluppo futuro della società da parte dei cittadini, l’innovazione e la cultura. A livello globale la concorrenza sui temi della produzione culturale e creativa sta assumendo una forte rilevanza, imponendo forti vincoli di efficacia ai territori che vogliono provare a difendere e a potenziare una propria specializzazione produttiva.

Volendo distinguere tra sfera culturale e sfera creativa, suggeriscono nell’articolo il Prof. Sacco e il Prof. Ferilli, si potrebbe dire che la prima ha la particolarità di produrre contenuti che non hanno altra finalità che di essere apprezzati in quanto tali, senza finalità ulteriori: vedere un film, ascoltare un pezzo musicale, leggere un romanzo; la seconda, al contrario, applica i contenuti culturali ad ambiti di esperienza in cui esistono altre finalità: un oggetto di design potrà essere molto originale ma allo stesso tempo, se è una sedia o un laptop, deve poter permettere all’utente di sedersi comodamente o di elaborare dati con rapidità, ergonomia ed efficacia. La creatività è generalmente più redditizia in termini economici, ma gran parte di essa avrebbe meno capacità di generare valore se non potesse attingere all’ampio bacino rappresentato dalla cultura.

La produzione culturale e creativa in Italia presenta buoni margini di produttività ma è ancora aperta a potenziali miglioramenti in termini di efficienza. Inoltre, non esiste al momento una capacità di collocare efficacemente i settori di produzione culturale e creativa potenzialmente più dinamici e innovativi sulla frontiera competitiva del sistema. Se davvero, dunque, si vuole puntare sul potenziale di sviluppo della cultura, approfittando del potenziale competitivo ancora non pienamente espresso dal settore, occorre mettere a punto una strategia industriale molto più coerente, sofisticata e coordinata a quella degli altri settori complementari rispetto a quanto si è fatto finora.