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Fritz Koenig, The Sphere, 1971, New York

Pubblicato sul volume “Nuove Alleanze”, nell’articolo “Il disagio dell’arte pubblica” la Prof.ssa Giuliana Altea, associato di Storia dell’arte c0ntemporanea nell’Università di Sassari e Presidente della Fondazione Nivola, esamina questioni fondamentali scaturite dal dibattito sull’arte pubblica durante il tavolo di riflessione al quale hanno partecipato anche Samuele Menin, critico d’arte e capo redattore della rivista Flash art, Mario Pieroni, Direttore artistico di Zerynthia e del museo RAM radioartemobile di Roma e Dora Stiefelmeier, consulente per l’arte contemporanea presso l’Académie de France à Rome e componente del Board of Trustees di Dena Foundation of Contemporary Art di New York.

“Arte pubblica” – scrive Giuliana Altea – “è un’espressione ambivalente, che designa un’ampia varietà di forme artistiche”. Queste forme artistiche sono rappresentate, se prendiamo ad esempio un contesto urbano, da monumenti che si propongono di visualizzare e trasmettere valori condivisi, “nei quali si suppone la collettività possa riconoscersi”.

Accanto al monumento classico c’è la scultura modernista, oggetto concepito per il museo o la galleria e “trasportato nella strada, parco o giardino, previo un adattamento per lo più minimo, limitato di solito a un ingrandimento di scala”. Il boom della scultura all’aperto risale alla metà degli anni sessanta, voluta per ragioni estetiche ma destinata a qualsiasi spettatore.

Alla scultura modernista fa riscontro la scultura site specific, ideata per un luogo determinato dal quale non può separarsi, almeno teoricamente dato che in realtà molte opere di questo genere sono state spostate o replicate in luoghi diversi da quelli ai quali erano destinate.

A metà degli anni sessanta, dunque, scultori come Donald Judd o Carl Andre ipotizzano un’arte che scaturisce dall’interazione tra opera, ambiente e spettatore e non dalla semplice contemplazione dell’oggetto artistico.

Infine, ci sono gli interventi di arte pubblica che nascono dal confronto con lo spazio sociale: “arte nell’interesse pubblico” o “New Genre Public Art”, “arte dialogica”, “arte di partecipazione” o “arte come pratica sociale”. Progetti, insomma, che si rivolgono alle comunità partendo da problemi sociali localmente sentiti. Si tratta cioè di azioni “che non lasciano traccia permanente nello spazio urbano”.

Questo rapporto tra artista e comunità è stato non di rado oggetto di critiche per via della brevità dello scambio instaurato con i residenti. In materia di arte pubblica l’appartenenza dell’artista alla comunità oggetto del suo intervento potrebbe certamente semplificare le cose, quanto meno da un punto di vista pratico. “Quando un artista nato in un piccolo paese fa ritorno nel luogo di origine per realizzarvi un progetto, la fama che si è conquistata altre fa di lui – o di lei – una specie di eroe locale, il che facilita non poco la riuscita del suo lavoro”.

Nell’arte pubblica come pratica sociale rientra anche l’arte relazionale. Qui, l’artista non si propone di entrare in rapporto con una comunità preesistente, ma aspira a favorire la nascita di comunità temporanee di fruitori-partecipanti: “attraverso piccoli progetti opera nel quotidiano per rinsaldare il legame sociale impoverito e compromesso nella cultura contemporanea dal prevalere della dimensione dello spettacolo”. Si tratta quindi di un arte accessibile a tutti. Presupposto fondamentale è l’idea che l’arte possa essere di aiuto per creare un modello di città priva di tensioni e conflitti, che serva cioè a migliorare la vita della collettività.

Come tiene a precisare la Prof.ssa Altea, il contenuto etico dell’arte pubblica e il suo valore politico sono stati ultimamente oggetto di acceso dibattito. Il disagio dell’arte pubblica e partecipativa rispecchia l’ambivalenza dell’arte contemporanea, al tempo stesso “chiusa” nel recinto protetto del sistema dell’arte e “aperta” sul mondo reale. Resta una possibilità di azione per chi sappia muoversi tra i due ambiti, sfruttando produttivamente lo scarto e la frizione tra di essi.

L’articolo integrale della Prof.ssa Altea è consultabile a questo link.