Yona Friedman with Jean Baptiste Decavèle, No Man’s City, Foto di Gino Di Paolo

È scomparso all’età di 97 Yona Friedman. Se ne va un gigante del pensiero, dell’architettura e dell’arte, che ha segnato la cultura del secolo trascorso e di quello in corso, e la cui influenza resterà negli anni.

Friedman, nato nel 1923 in Ungheria da una famiglia ebraica aveva conosciuto gli orrori dell’ascesa del nazismo e della guerra. Al termine del conflitto completò la sua formazione in Israele per poi trasferirsi a Parigi, dove visse dal 1957. È stato docente in molte università soprattutto americane e ha pubblicato innumerevoli saggi, anche di argomento disparato – ma al centro della sua riflessione sono sempre state l’architettura e l’urbanistica, e il loro inestricabile rapporto.

Anche se realizzò pochi edifici, i suoi disegni e i suoi scritti hanno indirizzato il lavoro di generazioni di architetti e urbanisti: è certa la sua influenza ad esempio sui gruppi di architettura radicale come Archigram e Superstudio, così come anche sugli architetti giapponesi del movimento metabolista, oltre che per lo stesso Kenzo Tange.

Ma la sua influenza – diretta o indiretta – si estese ben oltre il suo campo disciplinare, al cui “confinamento” era per altro refrattario. È stato piuttosto un pensatore, un filosofo, che sapeva scrivere anche col disegno e che non ha inseguito l’originalità a tutti i costi ma ha piuttosto coltivato la sincerità radicale del suo sguardo originale – ma sensatissimo – sul mondo.

Essendo nato nell’Ungheria del ‘23, Friedman aveva forse visto già nella realtà della guerra – nell’esperienza primordiale dei bombardamenti – la natura mutevole delle città. Anche al grado zero di architettura sopravviveva il funzionamento urbano: questa esperienza gli rivelò probabilmente proprio la pasta di cui le città sono fatte, che non sono più gli edifici, e nemmeno le strade. Anche in mezzo a quelle rovine abitate, la città viveva. Nella sua visione, le rovine erano ben altro: “Un architetto non crea una città, ma solo un accumulo di oggetti – diceva – sono gli abitanti a inventare la città. Una città disabitata, anche se è appena costruita, non sono che rovine”.

Già nel 1956 aveva presentato al X Congresso Internazionale di Architettura Moderna (CIAM X), tenutosi a Dubrovnik il suo determinante “Manifeste de l’architecture mobile” (Manifesto per l’architettura mobile). Quella proposta era un’architettura basata sull’uso flessibile dello spazio e sulla collaborazione degli abitanti.

Capì subito che il CIAM non era pronto per le sue idee, o forse non era già allora più servibile come strumento di innovazione. Formò un suo gruppo autonomo e da quel congresso i concetti di “architettura mobile” e il suo corrispettivo urbano, la “ville spatiale” – una visionaria città modulare – trasformabile e sopraelevata – divennero il centro del suo insegnamento e dei suoi numerosi scritti.

Yona Friedman, Ville Spatiale

Già allora i problemi o meglio i temi dell’urbanistica erano molto cambiati: non erano più mascherati di “tecnica” ma dichiaratamente filosofici, e anche decisamente politici. Per quanto Friendman stesso, in chiara polemica con il razionalismo, rivendicasse la necessità di una “architettura scientifica” (Pour une architecture scientifique, 1968) che evidentemente nonostante le pretese non vedeva realizzata in alcun luogo, l’urbanistica – e l’architettura – erano ormai un modo per interrogarsi sulla condizione dell’uomo nel mondo e anche sulla sua capacità di trasformarlo per il meglio, con laicità e coraggio.

Friedman per questa sua visione fu accusato dai di essere un “utopista” – accusa che accettava di buon grado, chiamando le sue però “utopie realizzabili”. Le sue frasi pacate ma radicali suonano oggi di un rivoluzionario buon senso: “L’architettura è iniziata senza architetti, ed è iniziata con strutture mobili, quello che faccio è solo cercare di tornare indietro” e ancora “l’architettura è un’attività popolare come quella di vestirsi o prepararsi del cibo”.

Friedman e il DECAmaster: Sentieri Contemporanei.

Con la scomparsa si Yona Friedman salutiamo non solo un pensatore rivoluzionario, ma anche un amico e una guida ideale per la comunità del DECAmaster e per i progetti nati attorno ad esso.

I suoi ultimi lavori, realizzati in collaborazione con Jean Baptiste Decavèle, hanno infatti attraversato la Sardegna con il progetto Sentieri Contemporanei, progetto promosso dalla Fondazione di Sardegna e realizzato in collaborazione con Zerynthia Associazione per l’arte contemporanea OdV. Sentieri Contemporanei ha trovato il suo punto focale attorno a una geniale intuizione di Friedman: una grande struttura-scultura “vuota” modulare e itinerante chiamata “No Man’s City / La Città di Tutti” che ha costituito lo scenario, mobile e trasformabile, delle varie tappe dell’iniziativa.

No Man’s City nel Chiostro dell’Università degli Studi di Sassari

Il viaggio della struttura è stato accompagnato da interventi artistici, momenti di approfondimento scientifico e iniziative collaterali organizzate in collaborazione con partner pubblici e privati. L’installazione materializza l’idea/progetto di un’auto-costruzione collaborativa e rappresenta forse la sintesi della sua idea di un’architettura mobile, ultima tappa di un percorso tutto realizzato in Italia da Friedman e Decavèle: cominciato con “La Montagne de Venise”, realizzato a Venezia con la collaborazione dell’Università IUAV e poi “No Man’s Land” realizzato a Contrada Rotacesta di Loreto Aprutino (Pescara) e “Vigne Museum” (Rosazzo).

L’operazione triennale è stata inaugurata nel 2016 con una conferenza di presentazione ad Alghero, che ha ospitato l’anno successivo la prima tappa dell’iniziativa con la mostra “In-Giro / A-round”, inaugurata in occasione della partenza – proprio da Alghero – della prima tappa del Giro d’Italia.

Ad agosto i 400 cerchi di legno della grande installazione modulare hanno preso il nome e la forma di “No Man’s City / La Stazione di Tutti”, installati presso le stazioni ferroviarie di Berchidda e Oschiri in occasione dei concerti di Raffaele Casarano e Marco Bardoscia, per il festival internazionale Time in Jazz. In seguito la struttura ha raggiunto il Chiostro della sede centrale dell’Università di Sassari, accompagnata da un calendario di interventi artistici e momenti di approfondimento scientifico conclusosi con la grande mostra “No Man’s Library / La Biblioteca di Tutti” all’ex Biblioteca universitaria.

Articolo di Giovanni Campus.