Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il quarto stato, olio su tela, 1868-1901

Tra qualche giorno, facendo atto di fede, arriveranno i soldi promessi alla truppa di detentori di partita IVA e contratti precari;  i sommersi, quelli che non hanno neanche il minimo richiesto, accederanno al girone ancor più infamante dell’assistenzialismo legato alle necessità alimentari. La ormai storica corsa ai 600 euro, causa di un crack informatico e d’immagine dell’INPS, ha segnato anche un passaggio epocale: la fine della vergogna per centinaia di migliaia di poveri che si travestono con i panni borghesi. Nella solitudine della propria abitazione abbiamo passato delle ore davanti al sito dell’INPS, sollevati all’arrivo della ricevuta. Nessun ufficio pubblico in cui andare, nessun impiegato pubblico a cui dichiarare la propria sofferenza, nessuna fila imbarazzante.  Tutto per una una somma inferiore alla pensione sociale. Si tratta a tutti gli effetti del primo momento rivelatore di una classe – di cui si conosceva l’esistenza ma mai la sua rappresentazione formale, mai uno svelamento pubblico concreto – che viveva nascosta dietro la coltre della vergogna.

La vergogna è un’emozione sociale, di relazione, viene sollecitata dai temi che la società fondano. In quella contemporanea avere o meno denaro diventa fattore di orgoglio per chi ne ha, o mortificazione per le moltitudini che non ne hanno abbastanza. Trovarsi poveri nonostante gli sforzi fatti da sé e dalla propria famiglia, a dispetto dell’alto livello di scolarizzazione raggiunto e dell’impegno messo nel crearsi uno spazio di considerazione sociale ha portato più ad abbattere la propria autostima anziché il sistema che ha creato questa perversione. Siamo poveri, viviamo sopra le nostre possibilità per pudore e elaboriamo, senza lottare, la sofferenza individualmente. I 600 euro hanno fatto venir fuori pubblicamente una classe sociale puntiforme che di quei denari ha bisogno non per recuperare un calo di fatturato ma proprio per sussistere.

La stessa moltitudine non chiede il reddito di cittadinanza – quello italiano, reazionario e paternalista – perché non vuole dichiararsi dalla parte del mondo in cui è umiliante stare. I più fortunati vivono degli ammortizzatori sociali informali come case di proprietà e rendite familiari. Chi sono, chi siamo? Precari della grande distribuzione, soci delle cooperative, commercialisti e avvocati, lavoratori dello spettacolo, informatici, precari della scuola, architetti, una folla variegata.

Per molti di questi lavorare  dieci ore al giorno è normale, guadagnare poco lo è altrettanto, il tempo libero è vissuto con senso di colpa: se non lavoro non guadagno, anche se il lavoro non esiste più, letteralmente.

Insomma, un  nuovo corpo sociale, conosciuto da anni nella letteratura scientifica, ha fatto ad inizio aprile la sua prima manifestazione pubblica, disarticolata e inconsapevole, chiedendo quello che gli spetta: un reddito di dignità.  Il prossimo passaggio della “classe dei 600 euro” non potrà che essere il tentativo di articolarsi e prender consapevolezza.

Chi vorrà farlo – un futuro nuovo partito di sinistra, un sindacato rinnovato? – dovrà dire con coraggio che il problema non è più il lavoro per tutti ma il reddito. Ne “Il diritto all’ozio” Paul Lafargue scriveva, con il sostegno del suocero Karl Marx, che “nella società capitalista il lavoro è la causa di ogni degenerazione intellettuale, di ogni deformazione fisica”.  Era il 1880.

Il lavoro per tutti non esiste più, è un miraggio traditore, ma il denaro per tutti c’è eccome e occorre immaginare come ridistribuirlo in forma stabile per permettere alla “classe dei 600 euro” di vivere in condizioni di dignità non solo per questi i mesi di pandemia ma per tutta la vita. Per troppo tempo si è consentito alle forze liberiste e reazionarie – incredibilmente presenti per decenni anche a sinistra – di trovare campo fertile per le proprie politiche degradanti per gli oppressi: occorre ora fermare questo percorso e approfittare dello smantellamento della vergogna collettiva. Che il tempo dell’ozio a cui questo virus ci ha costretto ci costringa a coltivare un pensiero nuovo e collettivo per impostare la costruzione di una nuova comunità.

Sergio Scavio
Sceneggiatore e regista, operatore culturale, già coordinatore didattico del DECAmaster.