L’articolo 9 della Costituzione, recita che il compito della Repubblica è quello di promuovere lo sviluppo della cultura e della ricerca tecnica e scientifica, così come quello di tutelare il paesaggio e il patrimonio artistico e storico della nazione. Inoltre, secondo l’articolo 33, l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. Ma dell’art. 9, nelle sue prime interpretazioni, si diceva che fosse semplicemente una “dichiarazione di tipo etico-politico” non idonea a produrre norme giuridiche vincolanti.
Nel volume Nuove Alleanze, il Prof. Omar Chessa, docente di Diritto Costituzionale e prorettore dell’Università di Sassari, sottolinea come ci sia una carenza di autonomia, non solo dal punto di vista finanziario, ma anche da quello dell’organizzazione e della gestione del bene culturale, oltre alle sovrapposizioni di competenze talvolta riguardanti persino lo stesso immobile sede di museo. A seguito della riforma del Titolo V della Costituzione italiana, approvata nel 2001, – spiega il Prof. Chessa – qualche cosa è comunque cambiata.
La rivoluzione avviene in realtà, anche se in minima parte, già negli anni ’70, quando l’articolo 9 comincia a essere letto come “espressivo di un valore e di un principio estetico e culturale che ha valenza strumentale rispetto allo sviluppo della persona umana”. Ricordiamo poi che, secondo la Costituzione, è compito della Repubblica promuovere lo sviluppo culturale. Ma cosa può fare concretamente la Repubblica? A chi sono assegnati i compiti di cui si parla nell’art. 9? Se, secondo l’art. 33 pocanzi citato, l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento, la libertà di cui si parla è da intendersi come una libertà individuale nel senso tradizionale e liberale del termine.
Si possono considerare due situazioni, secondo il Prof. Chessa: la prima stabilisce che è compito della Repubblica creare i presupposti e le condizioni di esercizio delle libertà individuali ma anche collettive legate alla produzione artistica e scientifica. La seconda concezione stabilisce invece che nell’interpretazione dell’art. 9 della Costituzione, entri in gioco anche l’art. 3, comma 2, che fissa il principio dell’uguaglianza sostanziale e secondo cui, quindi, “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Si potrebbe quindi affermare che sia compito della Repubblica non solo garantire le condizioni di esercizio delle libertà, ma anche intervenire a sostegno delle espressioni culturali deboli sotto il profilo economico-finanziario. Oppure, altra opzione sarebbe quella proposta dal Prof. Pier Luigi Sacco e dal Prof. Domenico D’Orsogna, denominabile “welfare della cultura” e secondo cui “è scientificamente dimostrato e dimostrabile che la partecipazione culturale cresce in maniera proporzionale con il benessere psicofisico della persona”. Politica culturale e politica di welfare possono quindi convergere.
Ma del testo costituzionale entrato in vigore nel 2001, in realtà, non è rimasto granchè: la valorizzazione dovrebbe essere compito congiunto dello Stato e delle Regioni e, dunque, le funzioni amministrative dovrebbero essere regionali ed eventualmente provinciali e comunali. Ma il diritto regionale italiano non gode certo di buona salute e questo si ripercuote quindi anche sulla tutela e valorizzazione dei beni culturali. Le regioni, inoltre, ormai rinunciano a impugnare le leggi statali, che per esempio limitano le competenze della periferia sulla tutela dei beni culturali. E il motivo per cui rinunciano è perchè hanno dovuto fare i conti con il taglio dei trasferimenti imposto dallo Stato.
L’articolo integrale del prof. Omar Chessa è consultabile cliccando qui.