Alessandro Isaia, project manager culturale dal ricco curriculum, coinvolto in alcuni dei progetti più innovativi degli ultimi vent’anni fra Piemonte e Lombardia, è un docente storico del DECAmaster – oggi DECApro – presso il quale insegna management degli eventi culturali.
Nei suoi corsi mette con generosità a disposizione degli studenti le sue competenze interdisciplinari e cerca di trasmettere anche un po’ del suo metodo e personale stile di lavoro, raffinato negli anni.
Ma le lezioni del Professor Isaia non sono solo momenti in cui si entra in contatto con la realtà del lavoro del project management culturale, con le più recenti tendenze, i fenomeni in corso e casi studio di assoluta attualità, sono anche momenti di scambio in cui nascono nuove idee per lo sviluppo territoriale a base culturale.
Durante una pausa delle lezioni delle scorse settimane abbiamo avuto l’occasione per realizzare questa piccola intervista, a cura di Giovanni Campus – allievo del Master -, in cui ci parla un po’ di sé, del suo percorso e della sua visione, e di quello che la cultura e l’arte – e progetti come il DECApro – possono fare per lo sviluppo di un territorio.
G.C.: Buongiorno Professor Isaia. Bentornato in Sardegna. Ci parli prima di tutto del suo rapporto con il DECAmaster. Quando è iniziata e come questa sua collaborazione?
A.I.: Collaboro con il DECA fin dalla sua prima edizione. Avevo già una precedente esperienza di interventi o moduli didattici in altri master o corsi avanzati, su singoli aspetti più minuti e tecnici. Qui si è presentata invece l’occasione di raccontare con un approccio più globale e sfaccettato su tutto quello che faccio…
G.C.: In effetti, la sua è una figura trasversale, decisamente interdisciplinare. Un po’ come il DECA stesso… Lei come definirebbe il suo lavoro?
A.I.: Mi occupo di tutto quello che riguarda la gestione di un bene culturale. Sia esso materiale, o immateriale. Si può parlare di management in generale, come anche di project management.
G.C.: Ci racconti brevemente il suo percorso di formazione.
A.I.: Sono laureato in architettura. In seguito, ho avuto la fortuna di formarmi presso un master in Gestione e Valorizzazione dei beni Culturali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Così è cominciato il mio percorso di professionalizzazione.
G.C.: Cosa pensa della crescente standardizzazione dei processi di project management? È segno di una professionalizzazione reale del settore?
A.I. Certo che lo è! E questo, attenzione, fa del bene alla professione in sé, più ancora che al singolo professionista. Per quanto formalizzato sia, poi, nel management non si perderà mai l’importanza del “tocco personale”, dello stile di gestione, delle capacità relazionali. D’altra parte, anche la medicina è una disciplina altamente formalizzata, una scienza, eppure ci sono medici più bravi e altri meno…
G.C.: Torniamo al suo percorso. Quale è stato il suo primo incarico importante?
A.I.: Fu presso la Biennale Internazionale di Arte Giovane, nel 2001. Il direttore era Michelangelo Pistoletto. Ho avuto subito la fortuna di entrare in contatto con uno scenario e con figure importanti: mi occupavo di fundraising e di sponsorship. Poco dopo però seppi che l’organizzazione delle Olimpiadi invernali di Torino 2006 era alla ricerca di un manager per gli eventi culturali. Mi candidai. Passai attraverso un processo di selezione molto duro, ma alla fine fui scelto.
G.C.: In cosa consisteva il lavoro?
A.I.: Le Olimpiadi sono un evento di grande complessità. E anche di grandissima standardizzazione del management. Il CIO (Comitato Olimpico Internazionale) fornisce al comitato organizzatore molto più che delle linee guida, piuttosto una serie di indicazioni molto precise su cosa fare e come farlo. Una delle azioni richieste, quella di cui mi venne affidata la gestione, sono proprio le “Olimpiadi della cultura”. Si tratta di un momento nel quale la località ospitante mette in mostra quanto di meglio o quanto di più rappresentativo esiste sul territorio dal punto di vista culturale. Un progetto in cui chiaramente la componente comunicativa riveste una grande importanza. La particolarità della nostra situazione era questa: mentre normalmente le Olimpiadi invernali si svolgono in località piccole e un po’ marginali – situate in montagna o in aree remote – questa era la prima volta che si svolgevano in una grande città. Una grande città, aggiungo, con moltissimo da offrire proprio dal punto di vista culturale. E con moltissima voglia di mostrarlo.
G.C.: Infatti come ha detto anche durante le sue lezioni quello delle Olimpiadi invernali di Torino fu il culmine di un lungo processo, per la città e per il territorio.
A.I.: Esatto. Le Olimpiadi arrivarono, si può dire, dopo dieci anni di preparativi. Dieci anni nei quali si investì tantissimo in cultura. Anni in cui Torino si presentava di nuovo al mondo come una grande capitale europea, con la consapevolezza che proprio la presenza di eccellenze culturali è cruciale per il riconoscimento dello status che andava cercando. In genere dunque le Olimpiadi della cultura si traducono in una sorta di festival realizzato ad hoc. Noi invece non volevamo nuove iniziative, quanto piuttosto coinvolgere tutti gli operatori del territorio che stavano già lavorando benissimo: che mostrassero di cosa erano capaci dopo dieci anni di investimenti! Operatori che si chiamavano ad esempio Teatro Regio, GAM, Castello di Rivoli… con queste eccellenze costruimmo il nostro “festival”. Riuscimmo a dare unitarietà a quello che la città già offriva in maniera un po’ frammentaria.
G.C.: Mi sembra che andò bene…
A.I.: Il format ebbe grande successo, e venne riutilizzato molte volte, anche in molte altre città. Credo che come ultimo esempio si possa citare quanto fatto per l’EXPO di Milano, con il cartellone collaterale degli eventi realizzati fuori dalla fiera vera e propria. Quello che si è chiamato “Expo in città” ricorda molto da vicino quello che facemmo noi a Torino nel 2006. Ma forse il successo più grande fu che molte delle partnership che si attivarono in quel contesto servirono in seguito per imbastire altri progetti e altre collaborazioni fra gli operatori, pubblici e privati, della città stessa, negli anni a seguire e fino a oggi.
G.C.: Veniamo infatti al giorno d’oggi e al suo lavoro con la Fondazione ARTEA, che ha presentato come caso studio anche agli studenti del DECAmaster.
A.I.: La Fondazione ARTEA è un soggetto a socio unico, è stata costituita dalla Regione Piemonte. L’intento era quello di ottimizzare la gestione dei beni culturali in una certa area del cuneese. È nata in qualche modo in seguito ad una emergenza, data dal fatto che alcuni di questi beni rischiavano la chiusura per la mancanza di fondi da parte delle amministrazioni locali. La Regione Piemonte ha deciso così di intervenire piuttosto che con una semplice dazione di denaro, con un processo anche sperimentale di ottimizzazione. Ha perciò inserito fra sé e i Comuni del territorio un soggetto professionale dandogli il compito della valorizzazione dei beni culturali lì presenti. Era un lavoro, quello della messa a sistema dell’esistente, che in qualche modo già conoscevo, ma da un altro lato è un lavoro del tutto nuovo, per via del contesto, sicuramente meno strutturato di quello torinese.
G.C.: Ha detto già a lezione che tutte le situazioni “di provincia” si assomigliano in qualche modo. Potremmo anche dire per un altro verso che gran parte dell’Italia è “provincia”. Certamente ci sono grandi differenze, ma può indicare anche delle affinità fra il contesto in cui opera adesso e quello della Sardegna, per come lo ha potuto conoscere in questi anni?
A.I.: Nonostante ci siano profonde differenze fra i due contesti (penso ad esempio ai trasporti e alle infrastrutture) ci sono anche molte affinità. Il primo aspetto che vorrei sottolineare è proprio la grande necessità – in entrambi i contesti – di un rigoroso ma ampio intervento pubblico in tema culturale. Per troppo tempo si è pensato che il “privato” potesse sanare le storture del pubblico, e che la libera concorrenza potesse da sola produrre un sistema cultura fiorente, ma questa visione si è rivelata deleteria soprattutto per i centri minori, e per la provincia. Anche qui sarebbe sbagliato vedere la cultura solo come “industria culturale”, come produzione di ricchezza. Intanto è da dimostrare che questo si possa conciliare con la qualità e la ricerca, ma poi il mantenimento stesso della sostenibilità del sistema sarebbe allora possibile solo nei grandi centri urbani. Bisogna invece partire dal presupposto che i primi obiettivi delle politiche culturali sono la produzione di consapevolezza e l’accrescimento del patrimonio cognitivo delle persone.
G.C.: A esigenze simili corrisponderebbero anche risposte simili? Sarebbe applicabile quello che voi state già facendo in Piemonte con la Fondazione ARTEA?
A.I.: Proprio un modello come quello della Fondazione ARTEA potrebbe in effetti fornire molte delle risposte del caso: un cardine operativo – tecnico, esecutivo, altamente professionale, che colleghi l’ente sovra-locale – in questo caso la Regione, tenuta a dare le linee guida generali – con gli enti territoriali – i Comuni – che custodiscono i beni culturali – materiali e immateriali – sul territorio, spesso sopportandone anche la gran parte delle spese. Due enti politici insomma, incardinati da una struttura tecnica.
G.C.: Per chiudere una domanda forse un po’ più frivola, perché certo non si può rispondere in due parole, ma se può: quali sono per lei le qualità salienti che deve avere un buon project manager culturale?
A.I.: La competenza rimane la prima dote. Competenza nelle materie economiche, giuridiche, gestionali, nelle materie specifiche della progettazione culturale e del project management. Ci sono però altre qualità che fanno la differenza: la capacità di mediazione – in particolare fra le esigenze e le individualità della parte artistica con le esigenze tecniche della parte realizzativa. Questo vuol dire anche capacità di ascolto. Forse si potrebbe chiamare tutto questo in una parola “sensibilità”. E poi, dato che abbiamo parlato quasi sempre di tecnica, bisogna ricordarsi che serve tanta passione. La passione nel nostro lavoro, si può dire, sconfina nella competenza.
Il Professor Isaia sarà nuovamente in aula al Master DECApro il prossimo 24 gennaio per l’ultima lezione per l’edizione in corso.
Intervista di Giovanni Campus, allievo del Master.
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Alessandro Isaia
Laureato in Architettura presso il Politecnico di Torino, consegue la qualifica di “Esperto in Sistemi di gestione e comunicazione applicati ai Beni Culturali” frequentando il Master della Scuola Normale Superiore di Pisa. Nel 2001 è nel Comitato organizzatore della BIG-Biennale Internazionale dei Giovani Artisti di Torino diretta da Michelangelo Pistoletto. Dal 2002 al 2006 è Manager degli Eventi Culturali per il Comitato per l’Organizzazione dei XX Giochi Olimpici Invernali di Torino 2006, per il quale progetta e coordina le “Olimpiadi della Cultura”. Nel 2008-2009 è responsabile del settore Comunicazione, Marketing & Web della Fondazione Torino Musei e direttore organizzativo di “T2-Triennale d’Arte Contemporanea di Torino”. Nel 2014 diventa Project Manager dell’Abbonamento Musei Lombardia Milano. Nel giugno 2017 è nominato Direttore della Fondazione Artea, costituita dalla Regione Piemonte per valorizzare e promuovere il patrimonio culturale materiale e immateriale di Cuneo e della sua provincia. È docente e formatore presso vari master e corsi universitari (fra gli altri: Università Cattolica di Milano, Sole24Ore Business School, IED-Istituto Europeo di Design, Università di Torino, Università di Sassari e Università di Cagliari). Insegna Management degli eventi culturali presso il DECAmaster fin dalla sua prima edizione.
Giovanni Campus
Laureato in filosofia, dottore di ricerca in Architettura e Ambiente con tesi dal titolo “The city as theatre: The performing space” è oggi Cultore della materia presso la cattedra di Estetica dell’Università degli studi di Sassari. Si occupa professionalmente da circa vent’anni di comunicazione e di progettazione in ambito culturale. È attualmente iscritto al DECApro: Master Interdipartimentale di II livello in Diritto ed Economia per la Cultura e l’Arte nella Progettazione dello sviluppo territoriale.